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Una fame affettiva

“In principio era la fame

come un enorme spasmo nell’essere” 

(Emmanuel Lévinas)

Mi chiesero di scrivere su un foglio tutto quello che il cibo in quel momento rappresentava per me. Questo fu quello che scrissi.

Paura, ansia, perdita di controllo, convivialità, crisi, abbuffate, privazione, peso, calorie, salute, forza, noia, disordine, amici, desiderio, pensieri. E ancora, equilibrio, vomito, pianti, sensi di colpa, inadeguatezza, vergogna, rabbia, bisogni, vuoto. In una sola parola “cibo”.


Tutto ciò che desideravo dalla vita era di sentirmi piena, sazia, completa; era questo il motivo del mio mangiare e questo il motivo del mio star male. Il cibo rappresentava, in quel periodo, il valore che attribuivo alla mia persona; non mi ero ancora accorta, tuttavia, dell’illusorietà e della precarietà di quell’elemento. Non chiedevo che il mio stomaco venisse riempito, cercavo, invece, inconsciamente, una pienezza interiore, una consapevolezza viva di chi fossi per me, a chi appartenessi realmente e quale fosse il mio posto nel mondo. 

Ormai mi ero persa.

Continuavo a riporre me stessa in quell’alimento effimero; sapevo di sbagliare, eppure, in qualche modo, mi sembrava di vincere. 

Conoscevo molto bene la sua falsità e meschinità, ma in fin dei conti mi risultava più semplice affrontare il cibo che non quel vuoto inspiegabile e quell’insoddisfazione acuta che si facevano strada dentro di me. 

L’amore non sapevo dove fosse, il cibo, al contrario, era in cucina, a pochi passi dalla mia stanza e dalla mia solitudine. 

La gente comune, nella maggior parte dei casi, mangia per fame, abitudine, convivialità o desiderio; io, invece, cercavo nel cibo qualcosa di più, qualcosa che potesse colmare quel vuoto che sentivo provenire da dentro, dalla parte più intima e nascosta di me. 

Negli anni quel vuoto e quel silenzio si erano fatti più profondi, mi ero negata ogni tipo di bisogno e ora, quasi ventenne, ne gridavo e ne pretendevo la soddisfazione. Terrorizzata da questo, lo eliminavo buttandolo via come fosse spazzatura. 

Si, perché più mangiavo, più vomitavo. Non riuscivo ad accettare il fatto che anche la “povera me” potesse aver bisogno di un po’ di amore, di sentirsi abbracciata e coccolata nella sua infinita fragilità e nella sua perfetta imperfezione. 

La voragine, così, diventava sempre più profonda ed io diventavo sempre più vuota. Mi svuotavo e facendolo sapevo di farmi del male. 

Dovevo essere perfetta e non lo ero. Dovevo essere autosufficiente e donarmi, donarmi continuamente. 

Io non dovevo esistere.

Eppure, più cercavo di eliminarmi più esigevo di essere considerata. 

Finivo, così, ad assumere il comportamento tipico del cane che si morde la coda. 

Se chiedevo e prendevo ciò di cui avevo bisogno, immediatamente mi sentivo in colpa, iniziavo a stare male e decidevo così che per un determinato periodo non avrei più mendicato amore. Mi eliminavo per un po’. Poi però, come dicevo prima, il bisogno e la necessità ritornavano, così io chiedevo nuovamente, mi sentivo in colpa ed eliminavo tutto. 

Il ciclo riprendeva il suo corso apparentemente normale e, se mai ne fossi uscita, perché quella era l’idea che avevo in quei momenti, ne sarei uscita sicuramente sfiancata. Il mio stomaco implorava aiuto e io, intanto, mi facevo schifo.

Non sapevo gestire le mie emozioni, non ne ero capace; forse non ero nemmeno mai stata educata a questo. 

Ogni volta finivo per eccedere. La mia vita era legata a un filo ed io su quello, ero molto, ma molto instabile.

Volevo fare tutto da sola, diventare completamente indipendente e auto determinarmi. Non accettavo i miei limiti, le mie fragilità e neppure le mie pene; volevo essere onnipotente. Ero frustata dall’idea di non poter essere Dio.

Dovevo essere perfetta e non lo ero.

Ero attanagliata dall’idea di essere mediocre, dalla paura di non essere mai abbastanza e questa si era trasformata per me in un forte senso di colpa. Avevo scelto di scappare dalla vita e scomparire definitivamente.

Non ero in grado infatti di essere perfetta senza fatiche e fallimenti. E la responsabilità di questo era solo mia. Io ero quella sbagliata, io quella incapace di raggiungere un tale obiettivo. Cercavo in tutti i modi di negare la mia natura e la convinzione che il controllo totale della mia vita mi avrebbe procurato ammirazione e amore mi logorava da dentro. 

Non mi accorgevo di essere già una bellissima creatura.

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