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I. A colpi di frusta

Aggiornamento: 27 dic 2020

“Il problema delle donne che soffrono di anoressia non è la fame. Perché in realtà le anoressiche […] hanno sempre fame. Una fame enorme. Una fame che le perseguita costantemente, proprio perché non «possono» e non «devono» mangiare. Il vero problema dell'anoressia è il sentimento di onnipotenza che nasce quando si ha la sensazione di poter controllare tutto, anche la fame. Nel loro corpo emaciato, le anoressiche sfidano la morte, proprio mentre la portano in giro come una medaglia da mostrare; sfidano i desideri, negando i bisogni primari del corpo, proprio mentre il desiderio non riesce più a emergere; sfidano le norme sociali per sentirsi libere, proprio mentre costruiscono da sole un sistema di leggi intransigenti che non possono mai trasgredire.”

(Michela Marzano)


Fu a settembre dell’ultimo anno di liceo che, immersa in questa profonda insoddisfazione di me, cominciai a manifestare i sintomi di quello che poi si sarebbe evidenziato come disturbo alimentare.

Avevo, infatti, cominciato l’anno scolastico con diete all’apparenza inoffensive, per poi passare ad abbuffate, crisi di vomito e forti sensi di colpa.

Annotavo su un quaderno ciò che mangiavo, sognavo un peso perfetto.


Il desiderio di dimagrire, però, maturava dentro me ormai da tempo.

Era l’estate della prima liceo e tornavo da una vacanza studio in Irlanda. Cambiato lo stile di vita e sballato il metabolismo il risultato fu che misi su qualche chilo.

Devo essere onesta, non è che non mi piacessi o volessi cambiare conformazione, ma da quell’esperienza la paura di ingrassare iniziò a radicarsi in me.

Il mio corpo negli anni stava cambiando velocemente, stavo diventando una donna a tutti gli effetti e la cosa mi destabilizzava. Ero, infatti, rimasta ferma all’immagine di me bambina, quella bambina che mangiava di tutto e non ingrassava di una virgola, e non riuscivo più ad accettare la realtà di una me che stava crescendo.

Fu la paura del cambiamento che mi costrinse nell’estate tra la terza e la quarta a provare le diete più varie.

Ricollego a quell’estate in particolare l’inizio del mio declino.

Totalmente paralizzata avevo iniziato a seguire le diete più sbagliate, iper proteiche e ipocaloriche. Eppure, se da una parte il mio corpo non sopportava la restrizione, dall’altra la mia psiche si ostinava a far guerra al mio bisogno. Volevo dimagrire e avrei raggiunto il mio obiettivo.

Davanti a tanto desiderio e forza di volontà ricordo di essermi sentita in quel periodo per la prima volta sola. La mia famiglia non mi supportava, non era ancora riuscita a cogliere e a rispondere a questo mia richiesta così importante di aiuto. Ricordo che in qualche modo, facendomi notare quanto fosse inutile per me una tale dieta, d'altronde non sono mai stata in sovrappeso, mi facevano sentire poco importante e di poco valore per loro.


Ricordo anche che quell’estate un’amica mi fece notare di essere ingrassata.

Dopo tanti sforzi quell’osservazione fu per me deleteria. Rivelò, infatti, un’immagine negativa del mio corpo, diversa dalla realtà che io stavo cercando di vivermi.

Iniziai ad aver bisogno di costruirmi un’identità che ricevesse consenso intorno a me.

Così mi misi a seguire modelli, assumendo sempre più quella maschera che mi avrebbe portato a lottare contro la vera me.


A novembre della quinta liceo piangevo quasi tutti i giorni; mi facevo schifo perché come una bambina priva di forze e autosufficienza non riuscivo a trovare un equilibrio.

Non ero in grado di addestrare in modo ragionevole l’animale affamato che era in me.

Ogni volta che questo rendeva manifesto il bisogno io lo reprimevo percuotendolo a colpi di frusta. In quel periodo, infatti, percepivo il corpo come ostacolo alla mia libertà e il bisogno quotidiano di mangiare che era manifestazione viva della sua presenza, come uno spietato dittatore che schiavizza.

L’animale, dunque, per me, andava represso completamente.

Ero, tuttavia, totalmente inconsapevole del fatto che il corretto atteggiamento nei suoi confronti sarebbe dovuto essere e di ascolto e di rimprovero. Il bisogno, infatti, è presente in me nella stessa misura in cui è presente la forza di volontà.

Così io, incatenata alla prigione del mondo materiale, cercavo in tutti i modi di dismettere la parte della mia esistenza umana che più mi costitutiva, il corpo e il suo bisogno.


Decisi, quindi, che avrei smesso di mangiare e per un mese intero mantenni un regime estremamente restrittivo.

Solo così avrei potuto sconfiggere il “nemico” e sentirmi finalmente forte e vincente.

Ignara del pericolo quella mi sembrava in quel momento la scelta più giusta e più sana.

Avevo smesso di fare colazione e pranzare, il regime calorico che mi ero imposta, infatti, era troppo basso per permettermi di consumare sempre tutti i pasti.

Conoscevo l’apporto calorico della maggior parte degli alimenti.

Una zolletta di zucchero conteneva dalle 16 alle 20 calorie. Troppe per il mio schema mentale. Per colazione, dunque, mi concedevo di bere un caffè, solo se amaro. Mi ripetevo che lo preferivo così perché al naturale. Mentivo.

Per pranzo, invece, il più delle volte masticavo solo una cicca per aiutarmi a placare la fame. Erano 5 calorie.

Cercavo in tutti i modi di stare il più possibile fuori casa. Mi organizzavo la giornata in modo tale da trovarmi il più impegnata possibile. Non sopportavo l’idea di avere momenti vuoti da dover riempire con il pensiero del cibo. Preferivo distrarmi con altro.

Ricordo ancora l’imbarazzo dei momenti di convivialità con gli amici. Molto spesso mi ritrovavo a dover mentire sulla mia fame e mentre gli altri gioivano nello stare insieme, io, invece, mi vedevo costretta a perdermi in pensieri riguardanti il cibo. Ero assente e in ansia. I miei amici prendevano la pizza, io prendevo l’insalata vegana. Facevano il commento di quanto fosse grande l’insalata, io immediatamente mi sentivo in colpa e non la finivo.

Stanca di queste situazioni in cui mi sentivo morire dentro decisi quindi di isolarmi.

Iniziai a rifiutare ogni tipo di invito amicale che implicasse il cibo e così piano piano, niente più aperitivi con gli amici, niente più pizzeria la sera, niente più colazioni insieme.

Anche Instagram aveva capito quanto il cibo fosse centrale nella mia vita. Ricordo che ogni giorno mi bombardava di immagini di piatti e ricette deliziose che fomentavano in me un forte e profondo senso di colpa. Mi sembrava che guardare quei cibi corrispondesse a mangiarli. E improvvisamente mi sentivo sazia.

Le mie ricerche su Internet effettivamente in quel periodo erano tutte riguardanti le cause e i sintomi dei disturbi del comportamento alimentare e nel leggere quei documenti ricordo che mi sentivo sempre un gradino più in basso rispetto a chi veramente ne soffriva.

Io dovevo diventare come loro, dovevo iniziare a vomitare più volte, mangiare di meno, togliermi delle soddisfazioni.

Non stavo abbastanza male.




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