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VII. Un amore fuori dagli schemi

Aggiornamento: 27 dic 2020

“In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi:

Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui.”

(1Giovanni 4:9-10)


A dicembre del primo anno di università avevo di nuovo perso la speranza e le riflessioni che mi avevano aiutata ad affrontare i mesi precedenti con il sorriso mi sembravano ora del tutto lontane e prive di fondamento.

Dove era il Signore nella mia vita? Dove era finita la Marianna consapevole dei propri limiti, ma fiduciosa in una vittoria futura?

Non credevo più a niente e a nessuno, ero giunta alla conclusione che non sarei più guarita e che non avrei mai potuto essere felice. La vita, fino a quel momento, si era rivelata un continuo sali e scendi di un tipico movimento da montagne russe. A me ormai era venuto il voltastomaco e pur sforzandomi di non pensare che sarebbe stato per sempre così, non riuscivo a rassegnarmi all’idea che, invece, lo potesse essere.

Il Natale, che da sempre regala al cuore di ciascun uomo viva speranza e tanta carità, quell’anno era stato per me ulteriore occasione di lotta e dispiacere.

Ricordo, infatti, che trascorsi la notte di quel giorno piangendo di nascosto, non amavo me come potevo pretendere di amare gli altri?

E così quella notte, pur circondata da amici e famigliari gioiosi di scambiarsi gli auguri e condividerne insieme la bellezza, io mi sentii, invece, del tutto fuor d’acqua, come un pesce che lentamente, poiché privato della sua ragion di vita, fuori dalla sua boccia, muore soffocato.

Volevo poter essere felice, ma non lo ero e non capendo cosa mi stesse succedendo soffrivo ancora di più.


Mesi prima, desiderosa di un cambiamento radicale all’interno della mia vita, mi ero iscritta a un’esperienza di missione umanitaria in Bosnia e di pellegrinaggio a Medjugorjie organizzato dal Regnum Christi. L’esperienza, se in un primo momento, dunque, mi era sembrata del tutto conforme al percorso di guarigione che desideravo perseguire; in quel momento, invece, mi apparve improvvisamente del tutto lontana da quello che potevo e volevo fare effettivamente.

Nella situazione in cui mi trovavo, sicuramente non sarei partita.

Dopo Natale, infatti, non stavo per niente bene; sarei, dunque, rimasta a casa e avrei cercato, in qualche modo, di risorgere dalla crisi come io sola meglio credevo.

Volevo che qualcuno aiutasse me, come potevo io, andare ad aiutare qualcun altro?

Volevo, inoltre, allontanarmi per un po’ da Dio come, dunque, avrei potuto vivere i giorni di spiritualità in programma?

Per quanto, poi, io sia sempre stata sinceramente innamorata di Medjugorjie, in quel periodo ritirarmi in preghiera era qualcosa di estremamente lontano dalla mia mente.

Il mio rapporto con il Signore, come già anticipato, si stava incrinando ogni giorno sempre di più e l’ultima cosa che chiedevo era quella di vivere più in simbiosi con Lui.

Ero profondamente arrabbiata e l’idea di poter ricevere in quel contesto salvezza, causava in me un senso di ansia e soffocamento.

Volevo, per una volta, poter essere lasciata in pace, libera finalmente da quella fede che quasi si mostrava ai miei occhi pretenziosa, opprimente, ma soprattutto giudice.

In fin dei conti chiedevo semplicemente di poter essere padrona e cura di me stessa, cosa c’era di male?

Era, dunque, per tutte queste ragioni che andare in quel luogo santo, in quel periodo, significava per me prendere una decisione alquanto ipocrita.

Per la visione distorta che avevo della fede, avevo paura che la Volontà di Dio mi chiedesse un cambiamento che per via della malattia non sarei riuscita a perseguire, ma soprattutto non avrei voluto perseguire.

Pensavo che pretendesse da me una qualche guarigione e agli occhi del Dio giudice mi vedevo una vera delusione e un autentico fallimento.

Nella mia testa era tornato il desiderio di non mangiare, di scomparire, dimagrire e stare male.

Dio non sarebbe stato d’accordo, ma io d’altronde non stavo bene e in qualche modo, attraverso la mia carne, volevo mostrarlo al mondo; Lui non avrebbe potuto impedirmelo.

Non volevo fidarmi di nessuno, per una volta avrei fatto di testa mia.

Mi ero stancata di fare la figlia modello.

La vita dopo un “si” a Maria e Gesù non sarebbe stata sicuramente migliore.

Partire, dunque, mi sembrava soltanto una grande perdita di tempo.

Che venissero loro da me se tanto ci tenevano, perché andarci io?


Il giorno prima della fatidica partenza, ricordo di aver parlato a mio fratello Andrea della mia decisione.

Sarebbe venuto anche lui in Bosnia, lo avevo invitato io, perciò mi sembrava giusto motivargli questo mio ultimo cambio di rotta.

Ero decisa a non partire, eppure quei brevi istanti di condivisione con lui mi guidarono verso una strada totalmente diversa rispetto a quella che avevo in mente.

Fu come se quello stesso giorno, qualcun altro al mio posto, mi stesse sollecitando amorevolmente a preparare la valigia.

Provai una sensazione a dir poco insolita; dentro di me, infatti, ero convinta di non voler andare, perché, dunque, mi stavo attivando per farlo?

Tutto questo fu più tardi prova del fatto che Medjugorjie, effettivamente, non fu per me una scelta, quanto piuttosto una vera e propria chiamata.

La Madonna mi voleva in quel luogo e quel giorno era proprio lei ad agire in me.

Fu un viaggio sicuramente molto sofferto.

Per qualche giorno mi sentii costretta, legata e imprigionata. Non fui io a scegliere di andare, perché dunque mi trovassi lì non era una domanda a cui potevo dare una risposta, ma tanto, poco importava.

Cercai di godermi le amicizie; di Dio, invece, non ne volli sapere più per un po’, il mio, era un “no” tassativo.

Nel frattempo, però, lui parlava, eccome se parlava.

I primi giorni, come già avrete capito, faticai molto nell’ascolto, non volevo salvarmi se non da sola e a mio avviso, non avevo bisogno di nessuno.

Poi accadde qualcosa di inaspettato, il mio cuore piano piano si sciolse.

Provai a mettermi veramente in ascolto.

Smisi di sentire solo quello che volevo e cercai invece di prestare attenzione a quello che davvero il Signore mi voleva dire.


Rimasi sorpresa.

Capii che Dio non è semplicemente Amore, Dio è Amore contraddittorio.

Il suo amore va oltre lo schema umano, oltre il limite, la sofferenza e l’egoismo.

Egli vuole semplicemente amarti e se per farlo deve coprirti le spalle quando non vuoi mangiare, egli è pronto a farlo.

Anche se soffre nel vederti sbagliare o patire, egli sbaglia e patisce con te e lo fa unicamente per amore. Non giudica, ma si allea con te, perché ti ama.

Come ha scelto di volermi bene il Signore? Prendendomi la mano e portandomi per la retta via? No, perché io la mano non me la faccio prendere, non mi fido, non mi lascio andare, sono orgogliosa e voglio fare di testa mia. Allora ha scelto di fare in un altro modo: Lui ha permesso che l’onda di tutto il male che ho dentro si scatenasse sul suo corpo. E mentre lo massacravo, Lui pregava e intercedeva per me.

Andargli contro è la strada che Lui ha scelto per amarmi, è questa la via della guarigione, è così che Lui guarda tutto ciò che c'è di male in me.

E così accadde a me proprio in quei giorni.

Fu, infatti, attraverso la figura del mio Padre spirituale che feci piccola esperienza di questa nuova e grande realtà di Dio.

Ricordo la prima cena di missione come fosse ieri. Come tutti gli anni sapevo che lo staff avrebbe ordinato le pizze per tutti. Io non mangiavo la pizza da troppo tempo e sicuramente non l’avrei fatto quella sera. L’idea mi disturbava, che cosa avrei risposto a chi mi avesse chiesto perché non mangiassi? Mi sarei sentita sicuramente a disagio, sarei voluta passare inosservata, ma la sensazione sapevo sarebbe stata quella di mille occhi puntati su di me.

Durante la cena ricordo che il Padre che conosceva i miei sentimenti e le mie paure, si sedette accanto con la sua pizza.

Fu mio complice in questo digiuno. Mangiava e metteva le croste della sua pizza sul mio piatto in modo tale che la gente non mi chiedesse nulla.

Così per tutta la serata fingemmo che io avessi mangiato e il mio cuore si tranquillizzò.

Non che gli altri non si fossero accorti di questo mio disagio, sicuramente però nella mia testa c’era tanta più pace.

Nessuno mi chiese nulla.

Mi sentii finalmente per la prima volta amata e guardata realmente, proprio nel profondo della mia fragilità, solitudine, stanchezza e rabbia.

Il mio cuore si sciolse e poco a poco riconobbi di sentirmi sempre più libera.


Durante quel periodo a Medjugorjie mi capitò più volte di riflettere ancora una volta sul significato della sofferenza e del dolore.

Di particolare importanza a riguardo fu la salita sul monte Krizevac, occasione nella quale ripercorremmo, insieme al gruppo, le tappe principali della Via Crucis.

A essere sincera, non ricordo moltissimo di quel momento. Ricordo soltanto il dolore e la fatica che provai lungo il percorso, qualcosa di insolito, mai vissuto prima.

Sulle spalle avevo uno zaino al cui interno avevo messo soltanto un libro di spiritualità e una bottiglietta d’acqua, niente di più, eppure, quel giorno, quello zaino pesava come se al suo interno ci fossero pietre.

Prima di partire per l’ascesa al monte il desiderio di stare in qualche modo più vicina alla croce accompagnando il Signore in quel momento di solitudine si fece sempre più forte. Pregai che mi donasse un po’ della sua sofferenza, volevo in qualche modo alleviargli il dolore.

La mia, vorrei sottolineare, non fu per niente una richiesta masochista; fu, infatti, l’amore che mi portò a pregare secondo quella modalità.

Durante la salita, dunque, mentre lo zaino si faceva sempre più pesante, io confermavo la scelta di sopportare la sofferenza come dono, di non togliermi il peso dalle spalle e non sedermi per riposare.

Ricordo che piangevo dal dolore, un dolore che razionalmente non avrei saputo spiegare.

Salii il monte con estrema cautela camminando ogni passo come il più pericoloso e faticoso.


Finalmente arrivammo in cima.

Dopo l’ultima stazione, quel giorno per la prima volta, intravidi una quattordicesima stazione, la Resurrezione di Cristo.

Avevo sempre vissuto la Via Crucis come percorso terminante la deposizione del corpo di Gesù dalla croce, ma quel pomeriggio qualcosa di nuovo si manifestava ai miei occhi.

La vita e la salita al calvario non terminava con la morte, ma con la resurrezione.

Capii allora che l’orizzonte non è una semplice linea limite che segna il confine di un’immensa distesa di mare, l’orizzonte è qualcosa che ti costringe ad andare oltre, ti dice l’inizio di un mondo a te ignoto.

Da quando ero nella malattia, infatti, avevo guardato al dolore con occhi miopi.

Non ero più stata in grado di vedere da lontano e così la speranza di cui Cristo si faceva testimone e garante appariva a me da tempo ormai sfuocata.

Sempre più desiderosa di trovarla e sempre più convinta di non poterla raggiungere, mi ero ormai da tempo arresa.

Ero diventata cieca, eppure, in quel momento, qualcosa di inaspettato si rivelò al mio sguardo.

Realizzai la falsità di questi miei ultimi ragionamenti e capii che la mia vita non era destinata a ridursi a sofferenza; c’era molto di più da scoprire e per questo avevo bisogno di indossare degli appositi occhiali.

La resurrezione doveva essere la mia nuova forza e sicurezza, la speranza il mio nuovo paio di occhiali. D’altronde era stato questo il reale significato della morte in croce di Cristo.

Capii ancora una volta che, è vero, la vita non risparmia a nessuno le proprie cadute o fatiche, tuttavia ci dona la giusta forza per poterle attraversare.

Ci mette a fianco persone che possano aiutarci a portare la croce.

È pronta ad asciugarci il viso se troppo bagnato dal sudore o dalle lacrime.

Ci dona la forza di poterci rialzare più volte. Ci segue con lo sguardo e ci accompagna verso il raggiungimento della pienezza.

La via del Calvario ci istruisce rendendoci liberi nel riconoscimento di quanto sia fragile la felicità di questo mondo.

È sobria, preparata e resa prudente dalla prova dell’avversità, essa è quella da lodare.


L’uomo, infatti, è chiamato a ricercare quella felicità duratura ed eterna la cui essenza e il cui posto è riconoscibile e distinguibile attraverso la sola sofferenza.

La vera felicità, infatti, risiede soltanto in coloro che riescono a contemplare la Verità trascendendo i limiti terreni per guastarne la bellezza e la grandezza.

È il sentimento che Dante riconosce nel Paradiso alle anime beate.

“Luce intellettual,piena d’amor;

amor di vero ben, pien di letizia

che trascende ogn dolzore.”

(Par. XXX vv.40-42).


La pienezza vera, è evidente, non può risiedere nella realtà contingente e accidentale di questo mondo. Essa è disposizione dell’anima nella pura contemplazione, la contemplazione di una realtà perfetta.

Siamo in questo mondo, ma non di questo mondo.

Tuttavia, se è vero che su questa terra è difficile raggiungere quella pienezza ultima, è anche vero che se impariamo ad ampliare il nostro orizzonte e abbracciare questa nuova prospettiva di speranza, riconoscendo l’eternità nella quotidianità potremo, finalmente, respirare un po’ di quella gioia autentica.

Siamo fatti per questo ed è proprio il nostro instancabile desiderio di conoscenza, di infinito e di grandezza che ce ne dà prova.



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