VI. La sfida dell'estate
- Marianna Platé
- 19 ott 2020
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 27 dic 2020
"Il vero amore deve sempre far male. Deve essere doloroso amare qualcuno.
Potresti dover morire per lui. La madre dà la vita a suo figlio e soffre molto."
(Madre Teresa di Calcutta)
L’estate 2018 spalancò le porte, fu l’estate dopo la maturità, quella più attesa, l’estate che sarebbe dovuta diventare per tutti la più indimenticabile di sempre.
Diversi erano i piani estivi, c’era chi sarebbe andato all’estero, chi si sarebbe preso un mese di vacanza al mare, chi invece ogni settimana avrebbe cambiato luogo di villeggiatura.
Nei miei piani ci sarebbe stato un viaggio tanto desiderato in Puglia con il mio gruppo di amici, una vacanza alle Tremiti con la famiglia e molto probabilmente il Cammino di Santiago.
Ricordo l’entusiasmo dei miei compagni al pensiero di un viaggio da sogno insieme a chi, con te, aveva vissuto il fantastico viaggio del liceo, fatto di gioia e di fatiche, di feste ed esami.
Saremmo stati in Puglia, ospiti in casa di un nostro amico.
Giornate trascorse in spiaggia a giocare a carte, aperitivi in piscina, gita in barca e gommone, foto al tramonto, cene in ristoranti di lusso e tanto divertimento in discoteca era tutto quello che avevamo sognato per quella nostra vacanza, quello che mi sarei aspettata di vivere in totale libertà, prima dell’inizio dell’università.
Eppure la realtà fu un’altra.
Dopo la maturità riuscii a partire per qualche giorno con le mie due più care amiche.
Mi feci due giorni di mare in piena tranquillità senza lo stress dei miei genitori che in quell’ultimo periodo avevano iniziato a preoccuparsi seriamente della mia condizione psicofisica stancandomi con tutti quei loro ragionamenti per me così insignificanti.
Fu un bel weekend; tuttavia, molto indicativo per le scelte conseguentemente prese.
In quei giorni mangiai davvero poco, sapevo che sicuramente le mie amiche non mi avrebbero obbligata o comunque non avrebbero insistito a riguardo e così io ne approfittai per perseguire nel mio ideale egoista.
Facevo colazione con un caffè, pranzo con uno yogurt e delle carote e cena con un’insalata molto leggera.
Ci tengo a sottolineare che la mia era una vera e propria malattia, non stavo bene e di certo non mi divertivo a giocare al ruolo dell’egoista capricciosa, che seguiva una dieta per il semplice gusto di dimagrire. Forse fino in fondo non ero ancora poi del tutto consapevole della situazione che stavo attraversando.
Le mie amiche non potevano farmi da dottoresse, non era loro compito, così non mi dissero nulla e non mi tediarono più di tanto. Se uscivamo a cena per un fritto misto vista mare, io mi portavo la mia schiscetta con le carote. Bevevano la birra e io mi riempivo con un litro di acqua per poter dire di essere sazia.
Così ricordo in particolare un episodio che pur nella sua semplicità e banalità fu per me davvero decisivo.
Fu il giorno in cui decidemmo di noleggiare il pedalò. Io che ero sempre stata una ragazza abbastanza forte e sportiva, quel pomeriggio mi scoprii debole e sfiancata. Non riuscivo a pedalare e se ci provavo subito mi girava la testa e mi sentivo svenire.
Realizzai e toccai con mano, per la prima volta, che la mia vita era seriamente a rischio.
Stavo tendendo troppo la corda.
Tornai a casa da quei giorni con la sana idea che non sarei potuta andare in Puglia.
Non solo, infatti, sarebbe stato limitante per me, ma sicuramente anche per i miei amici che ingiustamente si sarebbero visti messi in una posizione che non sarebbe stata di loro competenza.
Il cibo era ormai diventato davvero importante per me, mi creava ansia e disagio e tutta la mia vita girava attorno ad esso.
Per gli altri invece rimaneva semplicemente e giustamente soltanto cibo, occasione di convivialità e gioia.
Uscivano a cena ed io che facevo? Non mangiavo? Oppure mangiavo poco per poi comunque stare male? Andavano a ballare e io che facevo? Rimanevo fuori perché priva di forze? E per gli aperitivi e lo Spritz in riva al mare? Bevevo anche io con il rischio di vomitare tutto?
Quell’estate non la dimenticherò mai, fu una delle più combattute di sempre.
Non ci fu per me sole o relax sul lungo mare, non ci fu nessun gelato mangiato con il sorriso sulla bocca e il cioccolato sul naso, nessuna pizza gustata al tramonto, soltanto lacrime, imbarazzo e tanto tanto cibo che ero costretta e non volevo mangiare.
Oltre ad aver io rinunciato al viaggio di maturità con gli amici, anche i miei genitori, quell’estate, avevano deciso di rinunciare alle nostre vacanze famigliari alle Tremiti. Tutto per starmi vicina. Volevano assicurarmi la loro presenza e la loro vicinanza. Volevano che tutto fosse comodo per la battaglia che stavamo combattendo.
Decisero di affittare, per l’intero mese di Agosto, una casa a Bordighera, a pochi metri dalla spiaggia. Sarebbe stata la soluzione migliore e così fu.
La casa, infatti, disponeva di un terrazzo molto spazioso dove potevo trascorrere la giornata nel caso in cui non fossi voluta scendere in spiaggia, era, inoltre, situata in una posizione molto comoda per eventuali miei spostamenti in autonomia.
Saremmo, poi, andati a Bordighera perché lì avremmo avuto una compagnia di amici e la cosa mi avrebbe potuto distrarre.
Quell’estate, però, ero debole, magra, priva di forze e in ansia al solo pensiero del cibo.
Pesavo davvero poco, navigavo dentro pantaloni taglia 10/11 anni e quasi mi sentivo bene, anche se, al tempo stesso, ricordo bene quanto mi facessero soffrire quei molti sguardi di disapprovazione o quei commenti di ragazzi che nel passarmi davanti mi gridavano di mangiare di più.
Ero molto fragile.
Spesso la famiglia si fermava in spiaggia a mangiare. Io, invece, costretta a rimanere a casa dovevo a tutti i costi finire il piatto che la dottoressa mi aveva prescritto.
Mangiavo diversamente da loro, per me quei pasti dovevano essere la cura.
Ricordo che come una bambina mi lamentavo in continuazione. In quelle occasioni avrei voluto saltare i pasti, ma i miei genitori non me lo avrebbero permesso.
Facevo i capricci e per fare loro un dispetto mi rifiutavo persino di prendere i farmaci antidepressivi che il medico mi aveva prescritto come ulteriore aiuto contro l’ansia.
Se la mattina mi alzavo prima dei miei genitori e mi ritrovavo da sola ad affrontare il momento della colazione, ricordo che anche solo due mele e due albicocche, che in quel periodo per me sarebbero state niente, tanto ero in sottopeso, mi destabilizzavano. Immediatamente scoppiavo in un pianto disperato che non conosceva consolazione alcuna. La mia giornata era finita ed io ero ancora una volta “una fallita”.
Per fortuna la dottoressa, all’inizio dell’estate, si era resa disponibile per eventuali aggiornamenti, mi aveva dato il suo numero affinché potessi renderla partecipe di tutti gli alti e bassi. Così, nei momenti di crisi la contattavo e lei modificava il mio piano alimentare, tranquillizzandomi su tutto e incentivandomi a continuare a combattere.
La premura e la presenza di tutta la mia famiglia quell’estate furono per me essenziali; mi permisero, tra uno sforzo e l’altro, di superare quel momento particolarmente critico e iniziare così a mangiare il minimo che mi avrebbe consentito di non perdere ulteriore peso e lentamente morire. La dottoressa era stata chiara, se non avesse funzionato, mi avrebbero ricoverato.
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