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IV. Dentro le mura di casa la condivisione

Aggiornamento: 27 dic 2020

“Sei tu che mi hai creato

e mi hai intessuto nel seno di mia madre

tu mi hai fatto come un prodigio”

(Salmo 138)


Durante il periodo della malattia, oltre ad una grave insoddisfazione personale, accumulai al tempo stesso un forte senso di inferiorità e di ostilità nei confronti di mia madre.

Erano sentimenti nuovi e, come tutte le novità, feci fatica ad accettarli e accoglierli subito.


Mia madre era ed è una donna di grandi valori.

Amata e stimata da tutti, appariva ai miei occhi priva di imperfezioni.

Mi faceva invidia e al tempo stesso mi scoraggiava anche.

La guardavo come si ammira un'opera d'arte, a metri di distanza senza la possibilità di "toccarla".

Non potevo chiederle di guardarmi e amarmi. I ruoli erano chiari, lei l'opera d'arte, io la spettatrice.

Così più la idealizzavo ed eliminavo il mio bisogno d'amore, più cresceva in me un forte senso di vuoto e smarrimento. Iniziai a non sentirmi più figlia.

Ma il bisogno più lo soffochi più riemerge prepotentemente.

Da mia madre pretendevo un amore perfetto, che, però, non era in grado di donarmi.

Provavo odio, rabbia e gelosia e questo per me era inaccettabile.


Finché pian piano imparando ad abbracciare i miei limiti e i miei bisogni, iniziai a guardare anche lei come una bellissima e fragilissima creatura.

Non era perfetta e non lo sarebbe mai stata.

Dovevo imparare a guardare e ad abbracciare i suoi limiti, come stavo cercando di fare con i miei. Dovevo, inoltre, guidarla io ad essere mia madre, la mamma di Marianna. Era un cammino che dovevamo fare insieme nell’unicità della nostra relazione; perché mamma non si nasce, ma lo si diventa pian piano solo attraverso il confronto con il figlio.

Scoprii quanto fosse importante la condivisione della propria interiorità.

Dovevo aprirle il cuore e rivelarmi se volevo che lei non navigasse al buio, ma alla luce. E ancora, dovevo dirle come mi sentissi, se avessi voluto che lei capisse e sapesse davvero cosa provassi. E così feci.


Donare a mia madre la parte più importante e segreta di me non fu per niente una cosa semplice e priva di sofferenza.

Pianti, discussioni, incomprensioni, limiti, delusioni e sensi di colpa emersero prepotentemente e se in un primo momento lo fecero con violenza, pian piano impararono a farlo con delicatezza, quasi fossero una carezza.

Iniziammo a scorgere, infatti, grazie a questi, la presenza di un amore più vero e disinteressato, un amore gratuito e altruista.

E così, dopo molti sfoghi e molte discussioni, capimmo che da tempo ormai ci stavamo cercando su due piani differenti della stessa casa. Non ci saremmo mai incontrate se avessimo continuato a rimanere sul nostro piano. Dovevamo uscire per incontrarci sul pianerottolo intermedio. Dovevamo, in sostanza, dimenticarci per un attimo di noi stesse e delle nostre convinzioni, entrare in dialogo con l’altro per poter infine ricevere dall’altro la parte di noi che avevamo perso momentaneamente.

Dovevamo cambiare il nostro linguaggio se volevamo entrare in comunicazione.

Giunte, quindi, alla consapevolezza di questo, entrambe manifestammo il forte desiderio di crescere e migliorare il nostro rapporto.


Imparai a cogliere la sensibilità e il limite umano senza sgridarlo. Imparai ad accettare il mio e l’altrui errore con sguardo misericordioso, abbracciandone l'esistenza per poi superarlo.

Anche mia madre in quanto donna meritava di essere guardata alla luce di un suo vissuto e di sue difficoltà che ancora oggi magari la segnano.

Devo ammettere che non sempre è tutto rosa e fiori, ma ormai questo lo abbiamo capito.

Gelosia, rabbia e incomprensioni ci saranno sempre e questo è proprio ciò che rende la sfida della vita tale. Non è, però, provare il semplice sentimento negativo che ci rende sbagliati, ma piuttosto cosa ne facciamo di questo.


In quel periodo, oltre al rapporto con mia madre, soffersi molto anche il confronto con mia sorella. Mi sembrava la mia copia più bella e più amata.

Provavo invidia, gelosia e rabbia. Non riuscivo ad amarla. Non potevo.

Diventata ormai un’adolescente, veniva ad assomigliarmi sempre di più.

Si stava facendo semplicemente più donna, più femminile, ma secondo me, lei, mi stava privando della mia identità. Non riuscivo ad accogliere la sua persona, era più forte di me.

A scuola la chiamavano la “mini Marianna” e in un contesto di continui confronti crebbe in me un senso di smarrimento.

Negli occhi degli altri io vedevo una Machi più bella, più simpatica, più grande e io ne soffrivo. Avevo perso di vista la mia identità, così preferivo sparire nel silenzio di un pianto nascosto.

Anche in questa situazione io ero per me la colpevole.

Volevo poter abbracciare mia sorella che, ignara di tutto, soffriva anche lei la mia stessa situazione, ma non ci riuscivo e così mi colpevolizzavo.

Ero cattiva, poco comprensiva e poco forte.


La mia testa si riempiva di menzogne e ogni mia interpretazione del reale risultava così essere deleteria. I fatti parlavano in modo semplice e veritiero, era quello che costruivo intorno a me che, invece, rendeva la mia vita complicata e ingannevole.

Il male da sempre, infatti, ha origine da una falsa interpretazione e io venivo attaccata proprio su questo, sul mio pensiero.


Non avevo, però, mai condiviso ciò che pensavo e sentivo con Machi, avevo paura di condizionarla e di ferirla, eppure da quando iniziai a farlo, devo ammettere, le cose cambiarono.

Spesso, infatti, è con chi abbiamo condiviso un grave dolore che costruiamo un rapporto più solido e veritiero. La lotta e la difficoltà, infatti, unisce nel profondo, e questo lo sperimentai proprio nella relazione con lei.

Il nostro legame si fece molto più solido e maturo; capii di poter contare sul suo appoggio, sulla sua delicatezza e sul suo amore. Era, infatti, la persona che più di tutte poteva capirmi, sangue del mio sangue, da sempre condividevamo la stessa casa e la stessa famiglia, da sempre, il più delle volte, condividevamo gli stessi dolori e le stesse gioie e io lo avevo sempre ignorato, come se fino a quel momento avessi vissuto sempre da figlia unica.

Fu per me da allora la mia più grande alleata.


Conclusa la maturità i miei genitori, preoccupati per il mio stato psicofisico, mi portarono nuovamente dalla dottoressa.

Quel giorno, nel visitarmi, ella diagnosticò una situazione in severa progressione e un’importante sindrome ansioso depressiva.

E se per me quella diagnosi era decisamente lontana dalla realtà, per i miei genitori, invece, si rivelò lapidaria.


Io volevo solo essere felice e per farlo pensavo di aver capito che dovevo dare ascolto a quelle voci che mi ripetevano che ero grassa e che solo non mangiando potevo realizzarmi a pieno, essere finalmente contenta e raggiungere un maggior apprezzamento della mia persona.


Tuttavia, la realtà era un’altra. Ero dimagrita di nove chili in poco più di due mesi e non potevo permettermi di perderne ulteriori.

La dottoressa ci aveva avvisato, se la famiglia non fosse intervenuta per tempo, sarei stata ricoverata.

Così, in un clima di estrema preoccupazione e tensione, i miei genitori decisero di mettersi in gioco. Dovevano fare quello che di solito fanno le infermiere in un Day Hospital per i disturbi del comportamento alimentare, obbligarmi, cioè, a mangiare quello che la dottoressa avrebbe prescritto.

Il cibo non doveva essere più un nemico e nemmeno solo cibo, doveva essere la cura, la medicina.


Ricordo che in quel periodo ogni volta che mi sedevo a tavola scoppiavo in lacrime, mangiare anche solo un pomodoro e due pezzettini di carne suscitava in me un grande senso di ansia e sconfitta. Stavo ore a fissare il piatto di piselli, perdevo tempo a tagliare minuziosamente le zucchine, piangevo e litigavo spesso con i miei genitori.

Sembravano non capire la mia sofferenza, mi obbligavano in tutti i modi a mangiare e io arrabbiata volevo soltanto farli sentire in colpa.

Per un po’ cercai di inventare qualsiasi tipo di scusa pur di non mangiare, finché un giorno, costretta a rimanere sul piatto, decisi che avrei offerto la mia fatica per mia sorella.

Così la forza la trovavo proprio lì, nei pasti che diventavano, così, preghiera autentica.

Non volevo che cadesse anche lei in questa brutta malattia e così, mossa da questa grande motivazione, affrontai insieme a lei la grande sfida dell’estate.

Mia sorella mi stava vicina con delicatezza e premura, era come se volesse custodire e salvare a tutti i costi quel suo gioiello prezioso. Non voleva perderlo e non lo avrebbe fatto.


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