III. Miserere di me
- Marianna Platé
- 21 set 2020
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 27 dic 2020
Quando vidi costui nel gran diserto,
«Miserere di me», gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!».
(Dante Alighieri)
Volevo farmi del male per fare del male. Di star meglio, non ci pensavo affatto. Una sorta di dispetto nei confronti di chi, nella mia visione malata, non si era mai preoccupato per me.
Possibile che nessuno della mia famiglia si fosse mai accorto della mia insoddisfazione e solitudine? Dov’era mia madre in quello che stavo attraversando? Perché non mi aveva mai chiesto se avessi bisogno di aiuto? Forse non si era mai accorta del mio malessere o forse, invece, preferiva addirittura ignorarlo.
Così per mesi mi chiudevo in bagno e piangevo; sdraiata sul freddo pavimento, nell'attesa che qualcuno venisse a tirarmi fuori, quello era per me l’unico rifugio sicuro.
Finché un giorno, giunta al limite, grazie all'insistenza di un'amica, mi decisi a chiamare la dottoressa per prenotare un appuntamento. Dovevo farmi carico di me stessa se volevo capirci di più. Gli interrogativi, infatti, aumentavano ed io non avevo ancora alcuna risposta.
Perché a me? Perché in questo modo? E ora come fare?
Ricordo quel giorno come fosse ieri. Per la prima volta mi sentivo guardata e supportata. La vicinanza e l'insistenza di Chiara mi testimoniarono che qualcuno finalmente era disposto a lottare per me. E così riuscii a fare quel passo così importante nel mio cammino.
Avevo ricevuto il numero della psicologa dalla mia tutor scolastica e da tempo ormai lo custodivo tra le pagine della mia Moleskine. Quel pomeriggio, sulla banchina della fermata del tram, piena di vergogna e timore, accanto allo sguardo rassicurante della mia amica, presi il cellulare e digitai il numero a dieci cifre scritto sul biglietto di carta ormai rovinato.
Rispose la segretaria.
"Si pronto? Vorrei prenotare un appuntamento con la Dottoressa" avevo la voce tremante.
Quelle parole uscirono quasi inaspettatamente dalla mia bocca, avevo preso in mano la mia vita, mettendo finalmente al primo posto me e la mia sofferenza.
Iniziò così quel lungo cammino verso la guarigione.
Con il tempo, grazie all’aiuto e al sostegno della psicologa, imparai a leggere la mia storia come unica, irripetibile e bella, solamente perché mia.
Capii che da piccoli ciascuno di noi riceve su di sé uno sguardo unico, un amore e un’attenzione che contribuiscono, nel bene o nel male, alla formazione della propria persona.
Quando pensavo fosse questione di colpa scoprii allora che non lo era.
La mia storia era stata scritta in quel modo e ciò che provavo era conseguenza di un passato che sicuramente in qualche modo mi aveva segnata.
E, seppur già vissuto, mi accorsi che esso era rimasto fino a quel momento per lo più sconosciuto.
Bisognava, dunque, che io leggessi la mia storia proprio alla luce di questa nuova consapevolezza. Dovevo iniziare a camminare alla scoperta di me.
Scoprii una Marianna a me ignota, una me impaurita dalla vita, insoddisfatta e insicura di sé, piena di rabbia e nostalgia.
Scoprii una Marianna che da sempre si era messa da parte per l’altro, che non aveva mai osato chiedere a nessuno e non si era mai permessa di aver bisogno di niente. Una Marianna che per anni non aveva mendicato amore per la convinzione subdola che lei non lo meritasse.
Ero, dunque, alle prese con la scoperta di un valore da dare a me e alla mia vita.
Anche io ero importante. Anche io dovevo sentirmi amata.
Dovevo, perciò, cominciare ad abbracciarmi nella mia preziosissima fragilità.
Era questa, infatti, che mi avrebbe potuto rivelare la profondità del cuore umano.
Dovevo, perciò, farmi umile e riconoscermi bisognosa, da sola non sarei potuta andare da nessuna parte.
La psicologa mi aiutò, così, nella lettura di quello che mi stava accadendo fornendomi il sostegno e gli strumenti necessari per combattere quel mio disagio così profondo.
Ma quell'aiuto soltanto non fu sufficiente. Avevo bisogno di uno sguardo medico e concreto, di una figura, cioè, che mi aiutasse a comprendere l'importanza dell'educazione alimentare.
Fu così che nei mesi di marzo e aprile decisi di farmi seguire anche da un’endocrinologa nutrizionista esperta nei disturbi del comportamento alimentare.
Il percorso con la nutrizionista fu molto impegnativo.
Ricordo che dopo l'adrenalina delle prime volte, dovuta al fatto di essere seguita personalmente da una specialista e avere una dieta esclusivamente per me, immediatamente seguì lo sconforto. Cominciai ad odiare il fatto di dovermi confrontare con il peso e le mie apparenti sconfitte.
Ero andata lì per dimagrire, ma dimagrire in fretta e la dottoressa non sembrava contemplarlo.
In casa poi combattevo da sola e così non supportata feci vincere le mie paure e la mia autodeterminazione e decisi di non andare più in studio.
Volevo fare di testa mia, ero convinta che nessuno mi avrebbe potuto aiutare come volevo.
A maggio caddi per l’ennesima volta; pianti, abbuffate e vomito.
Ormai era la routine. Non ce la facevo più.
Nei mesi di preparazione alla maturità avevo deciso di rimanere restrittiva; c'era il rischio che l'esame non andasse come avrei voluto e almeno in una cosa non dovevo fallire.
Il cibo, infatti, lo avrei eliminato e così sbarazzandomi del problema più invadente, mi sarei potuta dedicare allo studio. Cercavo di stare il più possibile fuori casa, studiavo all'aria aperta così da poter saltare i pasti e non stare male. Ripetevo ore e ore ad alta voce, tra una sigaretta e l'altra per vincere la fame.
Dopo la maturità, dunque, per via di questo mio regime fui costretta a ritornare dalla dottoressa.
In poco tempo, infatti, avevo perso troppo peso e la situazione si era realmente aggravata.
"Dobbiamo introdurre la colazione e il pranzo, così non va assolutamente bene".
"Marianna se non agiamo per tempo, ti dovremo ricoverare, non puoi permetterti di perdere ulteriore peso". “Vuoi davvero viverti un'estate in ospedale?"
"Un pomodoro, del formaggio e due gallette per pranzo, va bene?"
"Marianna devi cominciare a pensare al cibo come la cura".
Così la dottoressa con estrema sensibilità e allo stesso tempo autorità mi invitava a fidarmi, ma per me non fu per niente facile e immediato.
Ricordo quelle visite come fosse ieri. Stavo seduta di fronte alla dottoressa su una sedia grigio metallico in una stanza bianca e fredda e piangevo, piangevo lacrime di paura e ansia al solo pensiero di reintrodurre anche solo un pomodoro all'interno della mia dieta; immediatamente mi sentivo una bambina.
Eppure in fondo sapevo che avrei dovuto dare ascolto a quelle parole, ma la voce subdola della malattia era troppo invadente per poter essere ignorata. Mi gridava che se avessi dato ascolto alla dottoressa, sarei stata un fallimento, che non sarei stata abbastanza forte. Ed io mi ansiavo.
La forza per affrontare tutto questo la trovai dopo una Confessione fatta un po' per caso su consiglio della mamma.
Da quando avevo sviluppato il disturbo alimentare Dio lo avevo completamente tagliato fuori dalla mia vita. Pur certa della sua esistenza, non volevo renderlo partecipe delle mie battaglie.
Neanche Lui, infatti, mi aveva dimostrato di sapere cosa fosse davvero bene per me. Non mi aveva mai aiutata ed ero sicura non lo avrebbe fatto neanche in un futuro. Ero convinta se ne stesse fregando già da tempo e io mi ero stancata di pregarlo.
Avevo preferito metterlo da parte, avevo preferito me a Lui, la mia volontà alla sua.
Eppure dopo quella confessione era come se per me, fosse diventato chiaro che da quel momento in poi la mia forza sarebbe stata la mia croce. Avrei dovuto abbracciare la mia sofferenza e Lui avrebbe fatto lo stesso con me nella gioia e nel dolore.
Non mi avrebbe guarita subito, ma sicuramente mi avrebbe dato la forza necessaria per affrontare la lotta standomi vicino e sorreggendomi. Lui stava dalla mia parte e non mi avrebbe permesso di affrontare una prova superiore alle mie capacità di resistere.
Avrebbe sofferto con me e forse di più, ma tutto questo per un bene maggiore di cui solo Lui era a conoscenza. Egli avrebbe trasformato il mio dolore in una promessa d'amore e misericordia.
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