II. L'immagine distorta di me allo specchio
- Marianna Platé
- 13 set 2020
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 27 dic 2020
“Io volevo esser solo in un modo affatto insolito, nuovo. Tutt'al contrario di quel
che pensate voi: cioè senza me e appunto con un estraneo attorno.”
(Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila)
“Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora
vedremo a faccia a faccia.”
(Paolo di Tarso, Prima lettera ai Corinzi)
Non mi piacevo. Volevo dimagrire e non ci riuscivo.
Vivevo nel continuo confronto con le mie compagne di classe e con le moltissime immagini di donne perfette che vedevo sui Social. E tutto questo produceva in me altissimi livelli di depressione, stress, vergogna, senso di colpa, insicurezza e insoddisfazione corporea.
Ricordo che in quei mesi ero ossessionata dal cosiddetto “thigh gap” lo spazio tra le cosce di alcune di loro. Mi chiedevo perché non lo potessi avere anche io.
Era diventato il mio principale indice di bellezza, un ideale innaturale e fallace che cercavo in tutti i modi di raggiungere. Non accettavo la mia conformazione e pensavo che una volta ottenuto questo, mi sarei piaciuta e sarei piaciuta maggiormente.
L’ideale di bellezza che la società mi proponeva e che alcuni ragazzi della mia età manifestavano di cercare nella donna era quello della ragazza dalle gambe lunghe e secche, priva di forme e scavata. Un modello, insomma, ancorato a forme corporee sicuramente androgine. Io non potevo essere di meno e così cominciai a rifiutare la mia femminilità. Niente più seno o fianchi. Non potevo deluderli. Dovevo essere perfetta.
Nell’ignoranza della lotta che stavo attraversando in quel periodo, ricordo l’apprezzamento che finalmente a fine anno un mio compagno di classe fece sulle mie gambe.
Non sapeva, però, che per arrivare ad essere così non pranzavo ormai da più di un mese.
E se in quel momento mi fece piacere, ora mi chiedo se davvero ne valesse la pena.
Era un ideale che portava alla morte del corpo e dell’anima.
Io non ero mai sazia, volevo sempre di più, sempre di più. Non ero mai sazia.
A giugno facevo tanta fatica a rialzarmi. Il cibo mi faceva stare male e se potevo lo evitavo.
La vera bellezza non sapevo nemmeno cosa fosse.
Per il periodo della maturità mi trasferii da mia nonna. Scappai di casa, avevo paura di quel luogo, avevo smesso di credere nella mia famiglia. Volevo stare bene e da lei sicuramente mi sarei sentita accolta e coccolata. Così accadde.
La nonna, accogliendomi tra le sue braccia, non si munì soltanto di tanto affetto, ma si vestì soprattutto di una solida corazza di acciaio che le sarebbe servita per affrontare con me le difficoltà di quella nuova situazione a cui stavo andando incontro.
Io volevo evitare di soffrire sotto esame e non mangiare appariva a me essere ancora la soluzione migliore.
Bisogna ammettere, però, che, nonostante tutto, ero ancora consapevole del male che provocavo a me e alle persone a me vicine, ma questo fino a quel momento non era importante; avevo sofferto abbastanza e non potevo più permettermelo.
Non mi fidavo più di nessuno, la sola persona che ne sapeva qualcosa, ero io.
Io soffrivo, io mi vedevo brutta, io volevo dimagrire. Tutti gli altri, invece, si sbagliavano, non sarebbero mai stati in grado di capire. Silenzio.
Mentre le mie amiche e i miei genitori mi rimproveravano per il mio comportamento, io ero sempre più convinta di voler perseguire il mio obiettivo. Ricordo che mi ero imposta un peso perfetto, all’inizio erano 48 kili, poi 46 kg, 45 kg, 44kg, non ero mai soddisfatta e più dimagrivo più mi sentivo forte e determinata a perdere ulteriore peso. Stavo ricercando la mia vera identità.
Mi guardavo allo specchio e non mi riconoscevo. Ciò che gli altri dicevano di me non lo sentivo corrispondere alla realtà, mi sembrava di vivere all’interno di una grande bugia. Davanti allo specchio cercavo di fare conoscenza con la mia nuova me, ma ogni tentativo risultava vano. Mi vedevo grassa, bassa e tozza e non mi piacevo. Dovevo assolutamente cambiare.
Davanti a quello strumento cercavo disperatamente chi fossi ed ogni risposta che lo specchio mi restituiva risultava essere soltanto la rappresentazione di una realtà costruita con il solo esercizio della mia mente malata. Odiavo quell’immagine riflessa di me che contribuiva a far crescere quello spaventoso senso di smarrimento che mi avrebbe portata all’autodistruzione. Quell’immagine corrispondeva alla realtà? Chi ero io? Ero veramente così grassa come mi vedevo?
Allo specchio mi vedevo di fronte a un corpo vuoto, la mia vita smetteva di essere vita, diventava centomila pose o maschere.
Ricordo che con le mani cercavo di modellarmi la faccia e le cosce, cercavo di figurarmi come sarei diventata se solo avessi perso qualche chilo sulla faccia e nell'interno coscia.
Cambiavo espressione per capire quale mi calzasse meglio, mi giravo e rigiravo cercando di cogliere il mio lato migliore.
Centomila pose, centomila maschere. Ma la realtà qual era?
Era come se non riuscissi ad accettare la distinzione tra rappresentazione della realtà e realtà stessa. Ero, infatti, molto di più di quello che lo specchio rifletteva, esso non poteva rivelarmi chi ero.
Davanti a quello strumento non potevo vedermi vivere, ero condannata a restare estranea a me stessa. Vedevo degli occhi, una bocca, delle braccia, ma non il mio sguardo tipicamente curioso e penetrante o il mio sorriso dolce all’amica del cuore o i miei abbracci pieni d’amore e affetto.
Solo nel rapporto con gli altri potevo conoscermi meglio. Solo con l’altro potevo cogliere parte di quella interiorità così profondamente mia e allo stesso tempo così profondamente trascendente il mio solo corpo.
La mia immagine allo specchio era soltanto una piccola parte della mia vera identità, la sola superficie, eppure non ero in grado di gridarle “Ce n’est pas toi”.
In quel periodo ero ossessionata, pensavo solo ed esclusivamente al cibo che diventava così la priorità sulla quale pianificavo tutta la mia vita. Questa volta il digiuno durava almeno venti ore, niente caffè la mattina, niente di niente. Mi pesavo cinque o sei volte al giorno, la bilancia era diventata la mia routine.
Consapevole e devastata dai miei ragionamenti malati, ad ogni modo perseguivo nell’egoismo di una spinta narcisista.
Concentrata su me stessa e sulla mia realizzazione godevo della mia forza di volontà. Controllare la mia alimentazione con successo mi dava “soddisfazione, una sensazione di potere sul mio corpo, un senso di compimento e una via per la spiritualità”. Cercavo la perfezione, schifavo il mio corpo. Avevo consegnato il primato della mia persona allo spirito. La carne, infatti, era per me luogo della debolezza.
Ero scissa in due. Da una parte la voglia di guarire, dall’altra il forte desiderio di scomparire. Non ero nessuno per me né per gli altri.
E poi, se devo dirla tutta, mi sentivo forte a non mangiare. Tornavo a casa più felice e più sicura di me stessa.
Peccato che però, non mi accorgevo della falsità e dell’illusorietà della situazione.
Il Male, infatti, da sempre si presenta agli occhi degli uomini come qualcosa di bello e seducente e io ero caduta nell’inganno della mela.
Durante la maturità, dunque, per via di questo mio regime alimentare estremamente restrittivo, persi di colpo molti chili. Iniziavano a sporgermi le costole e le ossa ed io mi sentivo sempre più forte. Iniziava, inoltre, a cadermi una quantità esagerata di capelli, ma io che avevo sempre odiato quella mia folta chioma ero quasi contenta all’idea. Mi stavo indebolendo e pian piano scomparendo e io nemmeno me ne accorgevo.
Subito, lo sguardo d’amore che da tempo ricercavo e che fino a quel momento mi sembrava del tutto assente, si fece presente in maniera quasi fin troppo assillante.
Erano tutti molto premurosi e preoccupati, eppure ai miei occhi apparivano soltanto ipocriti e falsi.
Cosa ne sapevano loro di come stessi realmente? Se ne erano mai interessati?
Era proprio vero allora che per ricevere un qualche sguardo d’amore dovessi farmi del male e scomparire.
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